Recital di canto

Elogio de “l’impuissance”

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Ph. Gabriella Ferrari Bravo

On ne comprend la puissance que lorsqu’on fait l’expérience d’etre à la merci de sa propre impuissance; le passage à l’acte n’est possible que si l’on amène sa propre impuissance à agir. ( L. McFalls et M. Pandolfi, dans Création, Dissonance, Violence, Boréal 2018)

Come meglio definire ciò a cui abbiamo assistito in un tiepido venerdì della Milano da bere? Una Liederabend non è certamente semplice da metabolizzare, solitamente la sala del Piermarini resta desolatamente sguarnita durante i recital di canto. Neppure i temibili loggionisti si danno convegno per fischiare gli artisti che, incauti, profanano la memoria del cantante morto e sepolto da decenni, del quale tengono vivo il ricordo al pari di vestali della tradizione latina. Eppure questo venerdì resterà nella mente di chi c’era per il soffio alato che ha riempito il teatro, per il generoso dono di sé che è arrivato a ciascuno dei presenti. Non c’era tempo e modo di tossire, scartocciare caramelle, parlottare o anche solamente di agitarsi sulla poltrona…perché Jonas Kaufmann e Helmut Deutsch, due uomini in frac,   stavando mettendo nelle mani di un pubblico letteralmente rapito un atto di creazione pura, un excursus sulla storia ed evoluzione del Lied. E’ sembrato così di vivere la fascinazione che Liszt, da virtuoso improbabilmente attratto da questo genere fatto di piccole miniature su testi poetici spesso di rara bellezza,  aveva subito nei confronti dell’intreccio fra parola e musica. Come scindere le due componenti in Die drei Zigeuner, mentre la consumata e simbiotica musicalità dei due artisti cesellava e sottolineava l’estrema teatralità dei versi di Nikolaus Lenau o ancora nella ballata dal Faust I di Goethe, Es war ein Koenig in Thule, quando la cellula narrativa si trasformava trascolorando sottolineandone l’intera narrazione. I versi si rincorrevano, il canto si soffermava su questa o quella parola, talvolta persino sulla singola sillaba senza compiacimento alcuno. Lo stato di grazia di Jonas Kaufmann si rifletteva in quello di Helmut Deutsch, o era il contrario?

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Ph. Gabriella Ferrari Bravo

Gli involi verso l’alto o la ricaduta al grave non erano mai sembrati così sicuri nella saldatura assoluta fra registri, nei fiati infiniti che si permettevano di burlarsi di intonazione e melismi con mezze voci sempre sapientemente dosate. Se infatti in passato il ricorso alla mezza voce poteva dare l’impressione di uno studiato manierismo, le dinamiche prescelte dal tenore tedesco in questo recital erano invece estremamente appropriate, in un linguaggio degli affetti  basato su un profondo scavo psicologico. Ecco che l’artista si metteva in gioco completamente, generoso e al tempo stesso coinvolto in una sorta di alienazione controllata nei mahleriani Rueckert-Lieder, passando dal profumo del tiglio in Ich atmet’ einen linden Duft fino alla livida Um Mitternacht   nella quale il fraseggio ricreava la densa atmosfera notturna.

E se i sette Lieder di Wolf mostravano l’estrema duttilità di uno strumento dall’inalterato fascino timbrico, colto per di più nello splendore di una acquisita maturità interpretativa, i Vier letzte Lieder, originariamente scritti da Strauss per voce femminile, sugellavano il percorso creativo alla base del programma scelto da Kaufmann e Deutsch. L’atto sovversivo con il quale si scardina la tradizione interpretativa, la sfida costituita dal voler affondare le mani, o meglio le corde vocali, in un materiale destinato ad esaltare filati ed involi prettamente sopranili, può aver fatto arricciare il naso ai puristi. Ma quanta estatica emozione ha suscitato in una sala appesa al carisma di un liederista naturalmente empatico e al tempo stesso convinto delle sue scelte! Raro é osservare il genuino coinvolgimento di un artista all’apice della carriera che traccia con la voce il  volo dell’anima e necessita di qualche secondo di sospensione prima di riaversi dal postludio di Im Abendrot.

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Ph. Gabriella Ferrari Bravo

Come se non bastasse la simbiosi artistica che lega tenore e pianista (guai a definirlo mero accompagnatore) ha condotto ancora per mano i presenti nella lunga serie di sette bis, dai tre straussiani,  Heimliche Aufforderung, Freundliche Vision e l’ipnotica Caecilie, passando per tre arie d’opera e concludendo con una deliziosa Es muss ein Wunderbares sein completando così il ciclo con un ritorno a Liszt. Quasi un secondo programma parallelo e un omaggio sincero al teatro alla Scala che lo vide acclamato Don José, Cavaradossi e che non l’ha ancora avuto come Radames. Sul si bemolle  finale smorzato, rinforzato e poi morente di Celeste Aida prescritto da Verdi la sala è esplosa decretando un trionfo meritato continuato con la romanza del fiore da Carmen e con E lucevan le stelle, emozionale e di grande musicalità.

L’adrenalina in circolo, ancora in frac, allegro e rilassato, prima di cambiarsi ed affrontare la folla che lo attendeva all’uscita degli artisti, Kaufmann ha amabilmente conversato con Cecilia Gasdia venuta a proporgli una collaborazione con l’Arena di Verona, mentre Enrico Stinchelli del popolare programma radiofonico La Barcaccia aspettava di salutarlo. E poi   felicità e sorrisi e solite foto di rito con amici che festeggiavano l’ennesima conferma del  suo talento e gusto interpretativo.

Del resto chi altri avrebbe potuto ipnotizzare Alexander Pereira che, dal suo palco, osservava e ascoltava appoggiato alla balaustra, il mento a sfiorare il velluto rosso?          20180929_000118

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Conversando con…Nicola Ulivieri

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ph. Giulio Delise

Incontro Nicola Ulivieri dopo una recita de I Puritani di Bellini a Palermo. In scena colpisce per il fraseggio curato e per l’omogeneità dell’emissione, oltre che per un’espressività che fa di lui interprete sensibile. Smessi i panni di Sir Giorgio mantiene una certa qual naturale riservatezza, per poi aprirsi al piacere di  conversare, nonostante lo attenda una sessione di canto propedeutica all’Italiana in Algeri in programma a Trieste. “Oggi non ho molta voglia di cantare, ma devo approfittare di ogni momento libero per riprendere la parte di Mustafà. Fino ad Ottobre ho un calendario molto fitto, quindi devo studiare nelle pause tra uno spettacolo e l’altro.”

La prima domanda è quasi scontata, come ti sei avvicinato al canto lirico? La tua famiglia che ruolo ha avuto nella tua formazione musicale?

In realtà la mia educazione musicale nasce con lo studio del violino. Mio padre infatti era violinista nell’Orchestra Haydn, dunque aveva avviato sia me che mio fratello allo studio di quello strumento sin da piccoli. A dodici anni però ho avuto quasi un rifiuto…ricordo che mi capitava di nascondermi sotto il letto per non fare lezione! Quindi ho smesso completamente di far musica sino ai diciassette o diciotto anni. Ma l’imprinting musicale era solo sopito perché ho iniziato a seguire mio padre in orchestra e, dietro suo suggerimento, ho cominciato a pensare al canto. A quel punto è entrato in gioco colui che è tutt’ora il mio maestro: Vito Maria Brunetti, il quale avendomi ascoltato mi ha suggerito di entrare in prova al conservatorio.

La tua si potrebbe definire una vocazione tardiva.

In realtà nella mia storia personale é stigmatizzata la differenza tra l’oggi e il recente passato. Non è una polemica la mia, riconosco di essere stato indirizzato verso quel tipo di formazione poiché 25 o 30 anni fa si mandavano a studiare canto coloro che si riteneva avessero le doti necessarie per affrontare questo tipo di carriera. Adesso invece studia canto soprattutto chi ha la passione per questa forma d’arte.

Guardando alla tua carriera come si è evoluta la tua voce e com’é cambiato il tuo repertorio dagli inizi mozartiani ad oggi?

Effettivamente reputo la mia un’evoluzione fortunata. Nel passato ho cantato tutti i ruoli del basso cantabile (o se vogliamo basso-baritono) mozartiano perché ho sempre avuto una certa attitudine e le doti di espressività richieste per quei ruoli. Il mio era un modo di cantare più libero, aperto e alto quanto a posizione vocale. Il timbro chiaro inoltre mi indirizzava naturalmente verso quel repertorio. Proprio il colore ha fatto sì che cantassi anche le parti da baritono come Guglielmo nel Così fan tutte e Papageno nel Flauto magico. Attualmente non accetterei mai di riprendere quei ruoli. La mia impostazione sia tecnica che fisica si è naturalmente modificata.

In effetti oggi capita spesso che un basso interpreti i ruoli che Mozart aveva scritto per baritono…

Trovo che si tratti più che altro di una moda. La tessitura è comunque da basso, e questo è lampante se ad esempio mettiamo a confronto la scrittura vocale di Figaro e Leporello con quella di Papageno. Vero è che in passato Siepi e Pinza hanno interpretato Don Giovanni, ma quando ho iniziato la mia carriera era impensabile che si potesse cantare Figaro sia nel Barbiere che nelle Nozze.

Ultimamente ti stai orientando più verso il belcanto. C’é ancora spazio per Mozart nella tua agenda?

Fra i miei prossimi impegni c’è ancora Don Giovanni. Mi sorprende un po’ che mi chiedano di cantarlo anche adesso, ma lo faccio volentieri. Lo riprenderò a Tokyo fra un paio di mesi.

Sempre in tema di repertorio qual’è la tua attitudine riguardo ad una eccessiva specializzazione e, al contrario, nei confronti di scelte onnivore? I tuoi colleghi spesso oscillano tra un estremo e l’altro nel pianificare gli impegni futuri.

Sono convinto che un’eccessiva specializzazione sia un’arma a doppio taglio. Si rischia di sviluppare un gusto e un modo di cantare che alla fine risultano limitanti. Alla fine è come sempre una questione di equilibrio e di tecnica. Ritengo poi estremamente pericoloso adattare la propria tecnica in base al repertorio che si vuole cantare. Ciò che detta la linea ideale sono pur sempre le qualità vocali che si hanno. Il canto è uno, la posizione vocale corretta è una, quindi la strada dovrebbe essere naturalmente tracciata se si vuole avere una carriera duratura. Quando in passato cantavo soprattutto Mozart mi si chiedeva spesso di alleggerire quanto più possibile, il risultato era un canto falso fatto anche di estremi falsetti. Ero giovane e sicuramente meno accorto di oggi, e difatti l’ho pagata. Passando a Rossini che esige una maggiore solidità, ho faticato moltissimo per via di questi strani effetti che mi avevano chiesto in precedenza. Oggi credo di aver trovato quell’equilibrio di cui si diceva. Ho in agenda soprattutto belcanto e romanticismo e la mia cura va in special modo al legato, alla morbidezza e al fraseggio.

Parliamo un po’ di Puritani. A Palermo si è adottata l’edizione critica a cura di Fabrizio della Seta. Era la prima volta che la cantavi? Nel caso del tuo personaggio Sir Giorgio ci sono sensibili differenze rispetto alla versione di tradizione?

Mi è già capitato di cantare l’edizione critica, in realtà i cambiamenti sostanziali sono per le parti di soprano e tenore. Per quanto mi riguarda non ci sono grandi modifiche. Durante il periodo di prove a Palermo abbiamo avuto la possibilità di visionare l’autografo di Bellini che è custodito proprio qui alla Biblioteca Comunale. Si é trattato di una grande emozione! Osservare la scrittura veloce e minuta di Bellini è stato commovente!

A proposito di questa produzione, si è trattato di una ripresa di una produzione alquanto didascalica e fin troppo tradizionale. Il tuo rapporto con i registi com’é? Preferisci metterti in gioco con regie più innovative oppure concentrarti sul canto in ambito diciamo… vecchio stile?

Sinceramente apprezzo molto quando si fa un lavoro più approfondito sui cantanti. Lo trovo stimolante, ma richiede molto più tempo. Nel caso di una ripresa di solito di tempo non ne hai mai molto a disposizione. Soprattutto all’estero si va in scena quasi senza prove. Ciò vuol dire che, per arrivare preparati alla prima, è fondamentale provare separatamente, con il proprio accompagnatore, a casa. Anche se, nella mia esperienza personale, mi è pure capitato di soffrire molto per un eccesso di prove! L’anno scorso ho fatto il Viaggio a Reims a Copenhagen. La produzione era quella strepitosa e fortunatissima di Damiano Michieletto nella quale avevo già cantato ad Amsterdam e che poi ho rifatto a Roma. Ebbene ho fatto dieci repliche (e questo è già di suo alquanto inusuale), ma il teatro ha programmato due mesi di prove. Vero è che ero l’unico nel cast che aveva cantato ad Amsterdam, però per un’aria son dovuto rimanere quasi prigioniero in Danimarca da Gennaio a Marzo!

Quindi il tuo è un rapporto conflittuale con le prove?

No, assolutamente. Anzi credo che si debba sempre trovare uno stimolo ogni qual volta si mette piede in palcoscenico. Se si arriva alle prove senza la giusta convinzione è ovvio che ci si annoi. La motivazione a far meglio, ad assimilare ogni particolare è quella che ci mantiene vivi nel momento della recita. Certo l’esperienza di Copenhagen è stata una sorta di caso limite.

Nel 2016 sei stato un ottimo Oroveso nell’interessante produzione di Norma firmata dai giovani registi Di Gangi e Giacomazzi dei Teatri Alchemici per Macerata Opera Festival. Si trattava di un debutto, per giunta all’aperto. Cosa vuol dire per te cantare  outdoor?

Lo confesso: ero preoccupatissimo sia perchè la vocalità richiesta era estremamente impegnativa, sia perchè non amo le esibizioni all’aperto. Ricordo di aver cantato in Armenia il Requiem di Verdi. Era una commemorazione del genocidio del popolo Armeno ed in cielo c’erano dei fitti nuvoloni neri. Sono stato con il naso all’insù fino a quando non sono intervenuti gli aerei militari a spazzare il cielo sparando sabbia sulle nuvole.

Nel tuo futuro ci sono nuovi ruoli, quali sono i tuoi prossimi impegni?

A parte lo Stabat Mater che canterò in Israele con la Israel Philarmonic e l’Italiana in Algeri a Trieste, tornerò a Pesaro per Ricciardo e Zoraide. A fine anno sarò al Théatre des Champs Elysées per Maria Stuarda e sarà un debutto importante per me a fianco di Joyce Di Donato. Altro debutto recente è stato in Roméo et Juliette al Liceu che mi ha dato grandi soddisfazioni. Ma devo dire che attualmente sono molto più preoccupato per Peter Pan, il musical di Bernstein che farò con il Maestro Noseda a Stresa in Settembre. Io sarò Capitan Uncino e dovrò studiare sodo. Ho tre arie da imparare, ma lo spauracchio è per me la lingua inglese! Dovrò organizzarmi con un vocal coach per il testo e portarmi lo spartito a Tokyo quando sarò là per Don Giovanni.

In questa ultima affermazione, quasi una confessione spontanea, c’è racchiusa la summa di un mestiere che, oltre ad essere fortemente aleatorio, oggi più di prima si gioca su spostamenti, ritmi frenetici ed un continuo lavoro di studio. Sarà forse questo che unisce chi, come noi, crede nella capacità taumaturgica del melodramma ad artisti come Nicola Ulivieri che veicolano tale messaggio?

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Nuit d’été a Macerata

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Serata autunnale più che estiva, inutile scrutare il cielo gonfio di pioggia alla ricerca di stelle cadenti, ma serata ideale per un recital suggestivo in un milieu affascinante come il piccolo teatro Lauro Rossi di Macerata. La variegata offerta musicale del Macerata Opera Festival comprendeva  anche un ciclo di concerti ospitati nel  teatrino del Bibiena, tra i quali spiccava, per qualità del programma e degli interpreti, quello di Veronica Simeoni accompagnata al piano da  Michele D’Elia.

La prima parte della serata ha offerto il ciclo berlioziano Les Nuits d’été, corpus di sei melodie che il compositore scrisse nel 1841 su poesie dell’amico Théophile Gautier, ritrovandosi nelle atmosfere romantiche e notturne presenti ne La corneale de la mort, raccolta  di 57 liriche pubblicata dal poeta francese tre anni prima. Cosa orientò Berlioz  nella scelta dei testi é difficile dirlo in mancanza di dichiarazioni o testimonianze precise. Si pensa alla fine del suo matrimonio e alla nascita di un nuovo amore. Quale che sia stata  l’ispirazione , questa raccolta  presenta  una unità e una coerenza che la accomunano ai grandi cicli liederistici schubertiani, dunque costituisce una sfida per ogni interprete che le si  voglia accostare. Veronica Simeoni ha mostrato tutta la freschezza di una voce sana, forte di una tecnica immacolata, passando con estrema grazia dalla semplice joie de vivre della canzone iniziale Villanelle alla sensualità nascosta de Le Spectre de la Rose, per poi immergersi completamente nelle atmosfere crepuscolari di Sur les lagune sfoderando al contempo  una invidiabile omogeneità di emissione sia nella salita all’acuto che nella ricaduta nel grave. In Absence il mezzosoprano romano ha poi cesellato tutta  la desolazione per la mancanza della persona amata, trascolorando in Au cimetière per poi ritornare, quasi in un’atmosfera irreale, alla leggerezza de L’île inconnue. Il pubblico ipnotizzato ha così  seguito fino all’ultima nota, quasi in apnea, il canto morbido e agevolmente piegato al contesto intimistico, quasi meditativo  in connubio perfetto con l’accompagnamento di Michele D’Elia.

La seconda parte ha invece offerto i contrasti forti del repertorio operistico francese con una D’amour l’ardente flamme da La Damnation de Faust  amara e suggestiva nella trascrizione per pianoforte. Chiusura in bellezza infine con Mon coeur s’ouvre à ta voix da Samson et Dalila  e con una rutilante ed insinuante al tempo stesso Carmen nella Séguedille. Il piccolo palcoscenico del Lauro Rossi sembrava non riuscire a contenere l’ interprete che, con il suo fantastico caschetto di capelli blu e lo squisito abito d’ispirazione pre-romantica, magneticamente interpretava ora Marguerite, ora Didone e le altre eroine dell’opera francese. Grande stupore quindi per la facilità e semplicità nel passare dalle atmosfere  delicate e notturne di un corpus prettamente cameristico quale è  la versione originaria de Les Nuits d’été ,  alla voce piena e spiegata del contesto lirico sia pure in trascrizione per pianoforte.

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Il Lied, anima del popolo tedesco

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Fu Thomas Mann a definire il Lied come l’anima del popolo tedesco. Questo breve frammento lirico, da forma minore che ne aveva attraversato tutta la storia, passando dai Kirchenlieder  di epoca carolingia al Minnesang trovadorico, per poi approdare ai Meistersinger, in epoca romantica diventò scrigno prezioso di testo poetico e illuminazioni musicali raffinate  grazie a Franz Schubert. Der Wanderer ,  incarnazione della condizione esistenziale  infelice, apparve così in entrambi i cicli liederistici del compositore austriaco Die Schoene Muellerin e Die Winterreise.  Ancora in epoca post-romantica e perfino nel Novecento compositori come Gustav  Mahler e Richard Strauss subirono le suggestioni di tale piccola composizione che non può essere paragonata a nessun altra, nè alla canzone nè al song perchè riflette pienamente l’essenza della germanicità.

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E’ sorprendente quindi assistere a serate trionfali come quella dello scorso 9 giugno, in un ambiente di sicuro poco avvezzo ad una Liederabend come il Palau de la Musica di Barcellona. Davvero nessuna barriera sembra in grado di arrestare l’alta marea chiamata Jonas Kaufmann, nè ostacolo costituito da diversa lingua nè cultura più o meno distante possono frenare il successo del tenore tedesco, tanto da ingenerare il dubbio che persino l’elenco del telefono cantato con il suo timbro scuro e vellutato riuscirebbe ad incantare chiunque. Puntualmente la fascinazione della sua voce unita alla sapienza musicale di Helmut Deutsch hanno stregato un pubblico poco avvezzo ad un repertorio così distante e anche restio ad un ascolto concentrato. Sono bastati pochi minuti, due soli Lieder perchè l’atmosfera mutasse. Di seguito il link alla cronaca rapita della serata:

http://www.operaclick.com/recensioni/teatrale/barcellona-palau-de-la-música-jonas-kaufmann-e-helmut-deutsch-nei-liederabend

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Mariella Devia e la Trilogia Tudor

Il concerto di Mariella Devia inaugura la stagione concertistica del Teatro Massimo di Palermo. Pensieri in libertà.

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http://www.operaclick.com/recensioni/teatrale/palermo-teatro-massimo-le-tre-regine-pi%C3%B9-una

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NESSUN DORMA e la prima volta di Jonas Kaufmann

by Caterina De Simone 20150615_223701-1E alla fine il Teatro alla Scala risuona di un tifo da stadio che scuote gli austeri velluti rossi e gli stucchi dorati. Jonas Kaufmann iperventila, chiudendo gli occhi per un lungo momento, il papillon lo ha già slacciato dopo il quarto bis, la tensione si stempera anche negli occhi del suo staff che segue il concerto dal palco reale. Il valore simbolico di questo concerto è enorme, viene dopo una presunta cancellazione di una intera produzione scaligera, “Cavalleria Rusticana”  che ha debuttato pochi giorni fa ( partecipazione per altro mai confermata dal tenore ma impunemente sventolata dalla direzione del teatro milanese) e dopo il forfait nel Requiem di Verdi per indisposizione. È anche il suo primo recital interamente dedicato a Puccini , intelligentemente programmato secondo un percorso che copre tutto l’arco compositivo del musicista lucchese e che consente a Kaufmann di scaldare la voce su arie poco conosciute dal pubblico generico da ” Le Villi”  e dall’ “Edgar”  per poi affrontare ”  Donna non vidi mai ” e “Ah non v’ avvicinate” dalla “Manon Lescaut” così come il resto del concerto con maggiore tranquillità.

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Lo strumento di cui dispone il tenore tedesco è prezioso , caricato in questa occasione di emotivita’ a fior di pelle  ben visibile, mentre il pubblico ascolta letteralmente appeso ai pianissimo, ai crescendo e al fraseggio raffinato e sempre perfettamente timbrato che fa dimenticare impercettibili ondeggiamenti. Nessun dorma , che di pavarottiana memoria ha fortunatamente null’altro se non un si naturale impeccabile , conclude il programma ufficiale e lo sguardo preoccupato di Kaufmann si scioglie in un sospiro di grande sollievo. Che meraviglioso cantante è quello che , nonostante una fama planetaria e l’incondizionato affetto di pubblico e critica, riesce ancora dopo vent’anni  e più di carriera ad emozionarsi e a temere se stesso ed i suoi limiti! I bis che regala agli spettatori presenti in teatro segnano il suo sollievo per aver superato la prova con successo e mettono in fila “Ch’ella mi creda” ,” Recondita armonia”, “Ombra di nube” cantata in un estatico raccoglimento a fior di pelle e “Non ti scordar di me”. Ma la gioia di ragazzo (ed è straordinario come la esibisca senza nascondersi)  si concreta in un quinto bis che ripete “Nessun dorma”  con un attacco notturno forse ancora più ipnotico del primo e tra versi dimenticati e ripresi con garbo e con un sorriso a voler chiedere venia al pubblico per l’errore quando già il pubblico è ai suoi piedi, in delirio come i professori dell’orchestra del Teatro alla Scala . Poco altro resta da dire di questo recital che vive delle perle e delle fragilità di Jonas Kaufmann , artista a tutto tondo che ha il pregio unico di non giocare mai a fare il superuomo dalle corde vocali simil-gomene , né il gigione che distrae il pubblico con ammiccamenti e facili effetti. L’orchestra  filarmonica della Scala esibisce i gioielli di famiglia nelle strepitose prime parti, due fra tutte la prima viola nell’intermezzo da Manon Lescaut e il primo clarinetto nell’introduzione a “E  lucevan le stelle”  da Tosca. C’è la mano discreta di Jochen Rieder sul podio  , neutra e certo non pucciniana, ma funzionale alla serata. Ma c’è sopratutto un cantante che non ha paura di rischiare e di mettersi in gioco e che “sente” Puccini come pochi altri. Chapeau!

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